Giovanni Giudici nasce a Le Grazie, in provincia di La Spezia, nel 1924. Studia a Roma, dove dal 1933 frequenta un collegio cattolico, esperienza per lui decisiva. Si laurea in Letteratura francese e intraprende la strada del giornalismo, occupandosi della pagina culturale di vari quotidiani di Roma, Torino e Milano. Lavora come copywriter e quindi come funzionario all’Olivetti di Ivrea, di cui cura il marketing e la pubblicità. Nel 1958, dopo l’esordio poetico con la raccolta Fiori d’improvviso (1953), si trasferisce a Milano. Dopo i primi volumetti di poesie, si afferma nel panorama letterario con due raccolte poetiche: nel 1963 esce L’educazione cattolica, cui segue nel 1965 La vita in versi, che raccoglie la sua migliore produzione fino a quegli anni. Seguono altri undici libri di poesie, raccolti nel 1991 per Garzanti nel volume Poesie. 1953-1990. Alla scrittura poetica Giudici affianca un’intensa attività di traduttore e critico letterario; in particolare spiccano le sue ottime versioni dai poeti di lingua inglese (Ezra Pound e Sylvia Plath) e slava (Puškin). Parte dei suoi saggi critici, in cui passione letteraria e impegno civile si intrecciano continuamente, è raccolta nei volumi La letteratura verso Hiroshima, del 1976, La dama non cercata, del 1985, Andare in Cina a piedi. Racconto sulla poesia, del 1992, e Per forza e per amore, del 1996. Si spegne a La Spezia, il 24 maggio 2011.

Nella produzione poetica di Giudici emerge un’atmosfera cupa mista ad uno stato di angoscia; il poeta, infatti, ricerca l’identità di un uomo in crisi, nel caos della società moderna inquinata dal capitalismo. Nelle prime raccolte (La vita in versi, 1965, e Autobiologia, 1969) è preponderante la riflessione personale che oscilla tra la ricerca di una maschera e l’auto colpevolezza per le proprie ossessioni. In O Beatrice (1972) il poeta mette a nudo le proprie debolezze e ricerca la protezione di qualcuno o una guida (da qui il titolo evocativo della raccolta). Con le ultime raccolte allarga la propria visione alla condizione esistenziale universale. Egli, pur aprendo il campo del poetabile, evita le sperimentazioni troppo avanzate della contemporanea neoavanguardia, prediligendo una forma di comunicazione più esplicita e diretta.


Tempo libero – da La vita in versi (1965)

La lirica, tratta dalla raccolta La vita in versi (1965) ritrae un momento della quotidianità.

Schema metrico: due quartine di versi prevalentemente endecasillabi, con rime disposte liberamente.

Dopo cenato amare, poi dormire,
questa è la vita più facile: va da sé
lo stomaco anche se il vino era un po’ grosso.
Ti rigiri, al massimo straparli.

Ma chi ti sente? – lei dorme più di te,
viaggia verso domani a un vecchio inganno:
la sveglia delle sette, un rutto, un goccettino
– e tutto ricomincia – amaro di caffè.

Il testo fa entrare il lettore nella scialba atmosfera della routine quotidiana, in cui anche la passione dell’atto d’amore è sfumata in una delle tante azioni della giornata. L’uomo è solo, nel letto «straparla» senza trovare chi lo ascolti. La donna come lui condivide il «vecchio inganno» (v. 6), cioè l’illusione di una giornata che non porterà nulla di diverso («e tutto ricomincia», v. 8). Il «rutto» (v. 7) dopo «la sveglia delle sette» (v. 7) presenta un tratto quasi animalesco dell’uomo che è abbruttito dalla monotonia di una vita che, in fondo, è amara come il caffè. Il tratto prevalente della poesia è l’ironia, che è più esplicita nell’espressione «la vita più facile» (v. 2), da interpretare al contrario, come il modo più difficile per poter accettare la propria esistenza. All’ironia si mescola, però, l’amarezza di una realtà che sembra granitica e immutabile. La sintassi dei versi, principalmente lineare, crea l’assenza di subordinazione; l’asindeto genera una successione veloce delle azioni e determina ancora di più un senso di ciclicità e ripetitività.


Cambiare ditta – da La vita in versi (1965)

Tratta sempre dalla raccolta La vita in versi (1965), la poesia ancora una volta si cala nella realtà quotidiana della vita borghese, presentandone i limiti e le contraddizioni.

Schema metrico: quattro quartine di versi liberi, legati da rime e assonanze senza schema.

Non puoi cambiarti, ma almeno cambia ditta,
il posto di lavoro è più che a una metà
(inutilmente resisti) della tua anima:
e quante cose per te cambieranno!

Avranno altri volti e strade le tue mattine,
t’illuderai quasi di aver cambiato città,
di avere davanti una vita. Un nuovo gergo
imparerai nelle file dei nuovi conservi:

ti ci vorranno due mesi per scoprirlo banale.
E poi nuovi padroni, nuove regioni dei tuoi nervi
in evidenza agli uffici del personale,
nuovi prodotti e una nuova misura

di quel che è bene e male – ed infine te stesso
di cui tutti diranno che sei nuovo.
Annuncerai ai lontani la tua novità:
«Questa mia è per dirti che adesso mi trovo…»

La poesia è dedicata all’insoddisfazione, che è il malessere cronico dell’uomo moderno; tale condizione è qui rappresentata dalla figura dell’impiegato, che tenta di placare la sua ansia cambiando lavoro; ma la sua fuga è inutile, perché il cambiamento è privo di senso, infatti non comporta il superamento della banalità. L’uomo, quindi, si ritrova ad inseguire una sfuggevole apparenza di novità: lo spazio è solo apparentemente diverso, ogni via, ogni volto alla fine diventa sempre uguale ad un altro. L’insistenza sull’uso dell’aggettivo «nuovo» nella terza e nella quarta strofa accentua il carattere ironico della poesia,  che emerge dai versi sempre in modo più crescente. Nella prima metà del testo, infatti, sembra quasi essere comunicata una speranza verso il cambiamento, che invece crolla definitivamente nella consapevolezza che basterà poco («due mesi», v. 9) per ritrovarsi nuovamente nella banalità. La tematica diventa ancora più cruciale perché il poeta coglie una verità fondamentale: «il posto di lavoro è più che a una metà / (inutilmente resisti) della tua anima:» (vv. 2-3); se metà della vita umana ruota intorno al lavoro, quest’ultimo è un vero e proprio microcosmo esistenziale. Anche in questa lirica il lessico è molto connotativo: i termini per indicare la realtà cittadina e impiegatizia sono espliciti e concreti, ma portano con sé anche un senso di squallore nella loro ovvietà.


Via Stilicone – da Poesie. 1953-1990

La lirica è datata 1984 ed è stata inserita in una raccolta complessiva che comprende la produzione di Giudici fino al 1990. In essa il poeta descrive un ambiente urbano attraverso una strada.

Schema metrico: sei quartine di endecasillabi nella prima e nell’ultima strofa e di novenari nelle altre; si riscontrano rime e assonanza variamente disposte.

Via Stilicone è a Milano una
Fra le vie più tristi che io conosca
Una fila di case e quasi niente
A confortarle dalla parte opposta

Dove vaneggiano alle notti
Di uno scalo e di un cimitero
Le luci delle sue finestre
Occhi di fatiscente impero

Come la fronte di chi stando
A un nudo tavolo altra fronte
Cerca a cui stringersi posarsi
Ma nessuna gli risponde

E giù si piega e si abbatte
Si fa cuscino delle braccia
Vuole scappare da se stesso
Sparire alla propria faccia

Strada uguale a dove sbando
Più ogni giorno o amica mia
Al Senzafondo al nome Morte
Che ha per compagnia Follia.

Via Stilicone è a Milano la via
Più vulnerabile che io conosca
Una fila di case con paura
Del buio dalla fronte opposta.

Ritroviamo in questa poesia la vena descrittiva del poeta, che accentua, in questo caso, il carattere impervio e accidentato del verso. Esso solo apparentemente presenta una struttura metrica tradizionale; gli endecasillabi e i novenari, infatti, si inceppano continuamente per la presenza di fratture interne, determinate da numerosi salti logici che impongono una lettura zoppicante e instabile per associare tra loro le parole. Anche le rime sono asimmetriche, e più frequenti si presentano versi spaiati. La scelta formale già di per sé comunica un’ambiguità letteraria: il poeta sembrerebbe volersi porre nella scia della tradizione, ma contemporaneamente non riesce ad esserle fedele. La motivazione di ciò risiede nel messaggio complessivo: l’ambiente urbano diviene metafora della condizione esistenziale del poeta. La strada milanese viene descritta in modo sempre più umanizzato; le finestre dei palazzi sono «occhi» (v. 8) che osservano una realtà ormai «fatiscente» (v. 8). Il lungo paragone che occupa le due strofe centrali rende più esplicita l’equazione spazio/uomo; l’immagine della persona che angosciata cerca conforto nei volti altrui («altra fronte», v. 10), ma resta deluso e si chiude in se stesso, volendo cercare l’oblio della propria condizione, preannuncia la riflessione più personale e intima del poeta stesso. La quinta strofa porta la strada a simbolo dell’angoscia del poeta che è oppresso dalla minaccia della «Morte» (v. 19) e della «Follia» (v. 20). Si attua così l’assimilazione dell’io alla realtà circostante, in cui emerge la dimensione della «paura» (v. 23), determinata soprattutto dal «buio della fronte opposta» (v. 24).


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