[…]
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
[…]
(Eugenio Montale, I limoni, da Ossi di seppia)

Scritta nel 1922 (ma reintrodotta da Montale nel 1921), questa poesia è la prima della sezione d’apertura di Ossi di seppia, intitolata, con una metafora musicale, Movimenti. Da questi versi emergono tutte le caratteristiche fondamentali del primo libro di Montale e molti temi della raccolta trovano un’enunciazione quasi programmatica. Provengono al lettore due messaggi distinti: l’uno di tipo letterario, con una dichiarazione di Montale che si esclude dalla cerchia dei poeti laureati alla maniera di D’Annunzio; l’altra di tipo esistenziale, che sottolinea la ricerca da parte dello scrittore di una misteriosa forza liberatrice e salvifica, nascosta dietro la superficie delle cose.


Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, da Ossi di seppia

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Scritta nel 1923, è la poesia che introduce la sezione che dà titolo all’intero libro, Ossi di seppia, per molti aspetti la più rappresentativa dell’intera raccolta, poiché ne interpreta la sperimentazione stilistica: Montale ricerca una lingua poetica nuova, lontana dalla tradizione ottocentesca, e fondata sia sull’estrema precisione del lessico sia su un’intonazione fortemente discorsiva. Il male di vivere, motivo tipico di tutta l’opera, è qui spiegato e illustrato come se fosse una paralisi della conoscenza, al punto che il soggetto si sente incapace di definire se stesso e il senso della propria esistenza.


Meriggiare pallido e assorto, da Ossi di seppia

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Una testimonianza del poeta afferma che questa lirica è la più antica – per data di composizione – introdotta in Ossi di seppia, giacché viene fatta risalire addirittura al 1916. Appartiene anch’essa alla sezione che dà il titolo al libro. Il paesaggio della Riviera di Levante (molto più aspra e scoscesa di quella di Ponente) è sicuramente riconoscibile in questa poesia: memoria delle vacanze estive trascorse da Montale per molti anni nella casa paterna di Monterosso, una delle Cinque Terre. Qui l’autore dimostra una fortissima capacità di oggettivazione poetica, comunicando al lettore, per mezzo di concrete immagini di valore simbolico, un messaggio profondo e condiviso.


Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, da Satura

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

La poesia è la quinta di Xenia II, che con Xenia I è la sezione di Satura in cui l’autore offre, con un tono elegiaco, colloquiale e raccolto, i suoi “doni votivi” alla moglie Drusilla Tanzi (soprannominata Mosca), scomparsa nel 1963. Questo testo, in particolare, è stato composto nel novembre del 1967. Emerge una vena malinconica e affettuosa, percorsa dal dolore dell’assenza: con grande tenerezza Montale rievoca la persona amata, alludendo alle sue più intime e nascoste qualità, che nel corso della vita in comune gli hanno insegnato a cogliere la verità dietro le apparenze del mondo.


La speranza di pure rivederti, da Le occasioni

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;
e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:
(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).

La poesia, composta nel 1937, è la sesta della sezione Mottetti, composta di testi molto brevi e concentrati, che richiama nel titolo una particolare forma musicale polifonica, vocale o semi-strumentale. Ispirata dal desiderio del poeta di rivedere la donna amata e dal timore di non poterla più incontrare, la poesia fa dei due incredibili sciacalli al guinzaglio un barbaglio della donna, un simbolo indecifrabile.


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